mercoledì 19 giugno 2013

Lo Stato e la riserva intera


di George Selgin (traduzione di Tommaso Cabrini)

I sostenitori del free banking stanno sostenendo una guerra su due fronti. Su uno affrontano i campioni del central banking e della manipolazione del denaro. Sull’altro combattono contro gli avvocati della riserva bancaria intera. Sebbene il secondo fronte sia molto più piccolo del primo, è ben lungi dall’essere trascurabile, in parte perché qui la battaglia sta venendo combattuta contro persone che per lo più sono a favore del libero mercato, che ci si potrebbe aspettare si uniscano alla nostra causa, invece di opporvisi.

Si oppongono per svariate ragioni, una delle quali è la loro convinzione che, in una situazione di autentico libero mercato, il sistema a riserva frazionaria non sopravvivrebbe. Invece, insistono, prevarrebbero le banche a riserva intera. Secondo loro, ciò che queste ultime non hanno è l’assoluta necessità di un campo di gioco inclinato a loro favore come per le banche a riserva frazionaria, caratterizzato in particolare da garanzie implicite ed esplicite sui depositi, finanziate attraverso il prelievo su tutte le banche, e qualche volta tramite tassazione ed inflazione. In parole povere il sistema bancario a riserva frazionaria viene nutrito da sussidi statali.

I sostenitori del free banking hanno provato a rispondere a questa argomentazione facendo notare come la riserva frazionaria abbia prevalso sotto qualunque tipologia di regolamentazione, fin dai primi inizi dell’attività bancaria, senza escludere periodi che comprendevano una ridottissima regolazione, come quelli di Scozia, Canada e Svezia e che erano privi della seppur minima traccia di garanzie statali o qualunque altro tipo di sostentamento artificioso. Ma poiché alcuni sostenitori della riserva intera sembrano non essere smossi da questo approccio, seguirò un diverso percorso, che consiste nell’evidenziare che ogni significativa banca a riserva intera che la storia ricordi fu un’impresa sussidiata dallo Stato, che dipese per la sua stessa sopravvivenza da un connubbio di sussidi governativi diretti, patrocinio forzato o leggi che sopprimevano le istituzioni concorrenti (a riserva frazionaria). Eppure, malgrado gli speciali aiuti di cui hanno goduto, ed il loro solenne impegno ad astenersi dal prestare il denaro depositato presso di esse, tutte quante sono andate a finire male. Non solo, furono queste banche a riserva intera sussidiate dallo Stato, piuttosto che le loro controparti private e a riserva frazionaria, che furono i progenitori delle successive banche centrali, a cominciare dalla Bank of England.

Secondo quanto indicano i documenti storici, le primissime banche furono istituzioni private che cominciarono ad operare nel business bancario come attività marginale. I primissimi banchieri potrebbero essere stati trapezites, i cambiavalute dell’antica Atene, o le loro successive controparti romane. Ma i primi che conosciamo nei dettagli sono noti come “banchi di deposito” che sorsero nel XII secolo in Italia, in particolare a Genova e a Venezia, ed i documenti indicano chiaramente che queste banche furono istituzioni erogatrici di credito piuttosto che meri depositi di denaro. Non solo, fu quasi invitabile che agissero in questo modo, perché per garantire efficacemente la possibilità di fare pagamenti tramite trasferimento bancario, e così evitare ai propri clienti la necessità di commerciare con le scomode monete disponibili al tempo, erano costrette a promettere la restituzione a vista, non delle stesse monete depositate presso di essi, ma di monete di ugual valore, il che significò diventare debitori invece di custodi. Inoltre la concessione di prestiti era legata alla presenza di eccessi delle riserve, mentre gli interessi guadagnati da ulteriori prestiti permise ai banchieri di ridurre le commissioni applicate ai loro servizi di pagamento, e persino di pagare occasionalmente interessi sui loro “depositi”. In ogni caso l’attività di prestito non venne mai tenuta nascosta. A Londra l’attività bancaria degli orafi ebbe un percorso simile, anche se non prima della meta del XVII secolo. In parole povere, così come indicano i documenti storici, tutti i primi banchieri privati operarono in base alla riserva frazionaria.

L’attività bancaria del periodo medioevale e rinascimentale fu notoriamente un business rischioso, nonostante detenessero solitamente riserve pari a circa un terzo dei loro depositi le banche private spesso fallirono. Fu in parte in risposta a questi fallimenti, ed in parte per motivazioni fiscali, che gli stati iniziarono ad intraprendere l’attività bancaria, istituendo cosiddette banche “pubbliche”, che attraverso il supporto governativo avrebbero dovuto operare in accordo con quelli che potremmo chiamare principi “Rothbardiani”, offrendo una combinazione di servizi di pagamento e custodia di moneta metallica, ma senza intraprendere alcun prestito. La prima di queste banche, la Taula de Canvi di Barcellona fu fondata nel 1401 con la promessa di essere un posto sicuro dove immagazzinare denaro. In realtà il governo intendeva fin dall’inizio prelevarne le risorse per finanziare il debito cittadino, ma i mercanti capirono il proposito. Il governo quindi rispose assegnando alla Taula il monopolio dei depositi a vista. Ancora una volta molti mercanti non abboccarono all’amo, ma la cosa proseguì finchè il governo non prelevò così tanto dalla Taula che questa fece bancarotta.

Sebbene la prima banca pubblica di Venezia, il Banco di Rialto fondato nel 1587, venne costituito sul modello della Taula, operò effettivamente sulla base di una riserva del 100% per un certo periodo, e fu per alcuni anni l’unica banca di Venezia. Ma ben lungi dall’aver estromesso dal mercato i concorrenti a riserva frazionaria su un equo campo di gioco, il Banco di Rialto vedeva i suoi costi operativi, inclusi i normali profitti, coperti dalle tariffe doganali, e fu solamente per questa ragione che fu in grado di offrire servizi di pagamento senza rischi in cambio di commissioni modeste. Tutto rimase immutato finchè i giorni della banca arrivarono a termine, quando nel 1619 fu fondata una banca pubblica concorrente, il Banco del Giro, e fu inizialmente autorizzata ad operare con riserva frazionaria. La nuova banca assorbì la sua rivale a riserva intera nel 1637, e a causa di continue richieste da parte del governo non riuscì mai a convertirsi alla riserva intera. Al contrario: due volte dovette sospendere i pagamenti, in entrambi i casi per molti anni.

La più famosa tra le banche pubbliche a riserva intera, la Amsterdamsche Wisselbank, è anche una delle più citate a provare la realizzabilità di questa forma bancaria. Ma anche qui, un’occhiata più da vicino suggerisce che la prova non è affatto tale. Per cominciare, nel fondare la Amsterdamsche Wisselbank nel 1609, il governo olandese scacciò anche i “proto-banchieri” privati– gli omologhi dei cambiamonete medioevali di Venezia e degli orafi londinesi del XVII secolo – dalla città dando di fatto alla banca pubblica il monopolio dei servizi di pagamento non in contanti. Il governo, inoltre, ordinò che tutte le cambiali da 600 fiorni o più fossero segnate sui registri della nuova banca. Infine, invece di veri depositi a vista, prontamente convertibili in moneta senza penali, i depositi presso la Wiesselbank potevano essere convertiti in denaro solo a fronte di commissioni del 2,5% degli importi ritirati, in modo da permetterle di coprire le spese e avere un piccolo profitto pur senza dover fare prestiti.

Per di più, malgrado le ampliamente diffuse credenze contrarie e la sua solenne promessa di “immagazzinare” tutti i depositi alloggiati presso di essa, la Wiesselbank concesse dei prestiti. Lo fece, innanzitutto, permettendo gli scoperti di conto. Cosa ancora più importante, lo fece su grande scala, concedendo anticipi al municipio e alla Compagnia Olandese delle Indie Orientali. Durante gli anni ’50 del 1600, per esempio, la città di Amsterdam prese in prestito l’enorme cifra di 2 milioni di fiorini, che non ripagò mai; e dopo il 1684 i prestiti ammontavano costantemente al 20% o più degli attivi della banca. Infine, nel 1790, il default dei pesanti (e, come sempre, clandestini) prestiti alla ormai in difficoltà Compagnia delle Indie Orientali costrinse la banca a svalutare la maggior parte dei depositi del 10%, rifiutando di restituire i depositi di importo inferiore ai 2.500 fiorini. Infine, quando i francesi invasero Amsterdam ed entrarono in possesso dei libri contabili della banca, questi rivelarono che le sue riserve erano scese a meno del 25% dei debiti, con la sola Compagnia Olandese delle Indie Orientali debitrice di un totale di 11 milioni di fiorini. La pubblicazione di queste statistiche causò un improvviso crollo del valore delle ricevute bancarie -che rappresentavano (fin dalla riforma del 1683) i soli debiti redimibili- con uno sconto del 16%.

La morte della Banca di Amsterdam segnò la fine dei tentativi statali di istituire, o fingere di istituire, banche a riserva intera, ed inoltre segnò la fine di qualsiasi richiesta di una tale tipologia di banca. Tuttavia fu ben lontana dal rappresentare la fine del coinvolgimento statale nell’attività bancaria, poiché le prime banche “pubbliche” (la Banca di Amsterdam in particolare – in parte grazie al mito dell’essere sempre stata solida - ) furono la principale ispirazione per un'altra razza di banche promosse dallo Stato, prototipo delle quali fu la Bank of England. Dove tale evoluzione ci abbia portato è fin troppo risaputo per dover essere qui riportato. Ma non dimentichiamoci mai il fatto che tutto cominciò con la richiesta che la clientela non fosse costretta ad avere a che fare con banche a riserva frazionaria.

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