giovedì 27 dicembre 2012

Gramsci e Turati, due idee di sinistra

di Damiano Mondini

Non credo di poter essere sospettabile di simpatie a sinistra. La cultura della gauche, socialista o comunista che sia, mi è quanto mai estranea, senza che la cosa mi turbi eccessivamente. Nondimeno, anche considerando la naturale antipatia che da liberale provo dinnanzi a questo universo culturale e politico, ritengo sia di fondamentale importanza studiarne i caratteri. A mio avviso, infatti, conoscere il nemico, col suo habitus mentale e la sua forma mentis, è indispensabile per rispondere efficacemente alle sue obiezioni, nonché per rendere evidenti i limiti e le mistificazioni intrinseci alla sua speculazione. Il pensiero socialista ci stimola inoltre a tornare sempre con spirito critico sulle nostre convinzioni liberali, anche solo per corroborarne adeguatamente le fondamenta. Infine, non è da escludersi a priori che i modelli pedagogici degli avversari non possano rivelarsi utili, quando declinati in un’ottica politica differente. Vado ad illustrare ciò che intendo.







 
Queste riflessioni mi sono provocate dalla recente lettura di un libretto interessante edito da Rubbettino: Gramsci e Turati. Le due sinistre, scritto da Alessandro Orsini, professore aggregato di Sociologia politica e di Sociologia dell’educazione presso l’Università di Roma “Tor Vergata” e l’Università LUISS “Guido Carli”. In questo agevole pamphlet vengono tratteggiati e confrontati i due modelli pedagogici di due indubbie personalità della sinistra italiana, Filippo Turati ed Antonio Gramsci. Due sono i pregi formidabili di questa sottile operazione intellettuale, che consiste nel calare nel caso di specie l’efficace metodo dell’analisi culturale comparata mutuato da Clifford Geertz: da un lato, quello di superare due miti stantii della tradizione gauchiste, l’idea di un Turati “zero” in teoria politica e quella di un Gramsci tollerante, democratico e in fondo “comunista liberale”; dall’altro, quello di evidenziare i cardini della pedagogia di questi esponenti della sinistra, i cui moventi psicologici e culturali sono quanto mai attuali anche per chi si colloca agli antipodi delle loro convinzioni.
Il primo obiettivo del libro è quello di riabilitare la figura di Filippo Turati, esponente dell’ala riformista – ossia moderata e parlamentare, erede del revisionismo di Bernstein – del Partito Socialista. Ciò a dispetto del giudizio di Palmiro Togliatti, che lo apostrofò da morto come “zero” in fatto di teoria politica, come “tra i più corrotti dal parlamentarismo e dall’opportunismo”, un individuo insomma la cui vita e la cui opera potevano senza tema essere relegate sotto “l’insegna del tradimento e del fallimento”. Per lo sguardo intransigente di un comunista del calibro di Togliatti, lo spirito compromissorio e conciliatore di Turati non poteva che apparire come l’emblema della corruzione delle idee assolute della Rivoluzione, cui conduce inevitabilmente la contaminazione con le procedure parlamentari della democrazia borghese. Già queste frizioni erano emerse durante i diversi congressi socialisti negli anni fra il 1892 ed il 1912, in cui si erano fronteggiati con toni spesso violenti il pragmatismo dei riformisti – Turati, ma anche Ivanoe Bonomi e Leonida Bissolati -  ed il massimalismo dei sindacalisti rivoluzionari – Arturo Labriola ed Enrico Leone in primis. Non si trattò del conflitto fra un bieco opportunismo ed una coerente difesa degli ideali socialisti: semmai, allo iato profondo tra l’accorta posizione dei riformisti, disposti a collaborare con le istituzioni borghesi per spuntare alcuni provvedimenti utili alla classe operaia, e la testarda indisponibilità dei massimalisti, il cui purismo rischiava di danneggiare irrimediabilmente i loro stessi ideali, nel nome del principio del “tanto peggio tanto meglio”. Alla tolleranza, al rispetto degli avversari, all’amore per il dialogo e alla condanna della violenza, capisaldi del messaggio pedagogico di Turati, facevano da contraltare l’intolleranza, l’odio preventivo e sospettoso per l’altro da sé, l’insofferenza per il confronto di idee – poiché le obiezioni borghesi sono fonti perverse di ammorbamento degli ideali proletari – e l’esaltazione della violenza verbale e fisica. Contrapposto alla pedagogia infantile ed intrinsecamente violenta dei massimalisti, lo spirito democratico di Turati emerge dunque in tutta la sua profondità, e ci consente di apprezzare una tensione all’apertura che dovremmo senz’altro fare nostra.



Ma non v’è necessità alcuna di proporre una Turati-Renaissance, e questo non è peraltro lo scopo principale dell’opera. Semmai, l’obiettivo più importante, peraltro egregiamente conseguito, è quello di contribuire a demitizzare la figura di Antonio Gramsci, da sempre idolatrata sia a sinistra che a destra: la storiografia dominante ha infatti individuato nella sua speculazione un invito al rispetto degli avversari politici, un elogio della tolleranza e dell’ascolto, un messaggio umanista che andrebbe apprezzato da qualunque prospettiva ideologica lo si guardi. Finanche un filosofo liberale come Benedetto Croce ha scritto nel 1947:




Gli odierni intellettuali comunisti italiani troppo si discostano dall’esempio del Gramsci, dalla sua apertura verso la verità da qualsiasi parte gli giungesse, dal suo scrupolo di esattezza e di equanimità, dalla gentilezza e affettuosità del suo sentire, dallo stile suo schietto e dignitoso, e per queste parti avrebbero assai da imparare dalle pagine di lui, laddove noialtri, nel leggerlo, ci confortiamo di quel senso della fraternità umana che, se sovente si smarrisce nei contrasti politici, è dato serbare nella poesia e nell’opera del pensiero, sempre che l’anima si purghi e di salire al cielo si faccia degna, come accadeva al Gramsci.
I suoi Quaderni dal carcere sono unanimemente riconosciuti come il prezioso testamento morale di un intellettuale ingiustamente perseguitato dal regime fascista per le sue idee democratiche, benché in effetti il loro contenuto non sia stato sufficientemente approfondito. Ed è proprio leggendo fra le righe di questo documento, oltre che fra gli scritti del periodo precedente – dal 1916 all’arresto nel 1926 -, che l’autore ricostruisce con maggiore fedeltà storica il portato pedagogico del pensiero gramsciano. Esso si rivela, al di là delle incrostazioni storiografiche, imperniato su alcuni principi cardine, ricondotti a dieci per ragioni espositive: 


1)      Chiusura preventiva alle idee dell’ “altro” (i massimalisti docent: ogni idea borghese corrompe, insinuando il dubbio ed il sospetto nelle certezze socialiste)
2)      Disprezzo degli avversari (apostrofati come “porci” e “stracci mestruati”)
3)      Elogio dell’insulto
4)      Celebrazione della violenza
5)      Intolleranza
6)     Attacco personale (del quale fanno le spese anche numerosi socialisti, in primis i riformisti)
7)      Principio di autorità
8)     Sottomissione all’ortodossia di Partito (quest’ultimo è “verità e vita”; Gramsci fu in effetti assai poco uno “spirito libero”, come solitamente viene dipinto)
9)      Culto di Lenin
10)   Dittatura del partito unico
Risultava imprescindibile per Gramsci educare i giovani con intransigenza alle ferree verità comuniste, dettate senza dubbio dai vertici del Partito, ed evitare che essi venissero contaminati dal confronto con le idee altrui, irrimediabilmente corrotte in quanto “borghesi”. Il messaggio così veicolato avrebbe potuto plasmare le menti dei futuri compagni all’ordine gerarchico e al rispetto per l’autorità. Fondamentale sarebbe stata altresì la sottomissione del singolo allo Stato: contro il liberalismo, Gramsci affermava la necessità di sottomettere ogni ambito dell’individualità al collettivo, cosicché agli “individui” facessero seguito i “compagni”. A tal fine, la rivoluzione proletaria – non già il contagocce dei riformisti – serebbe stata l’unica morsa in grado di “costringere tutta la società ad identificarsi con lo Stato”. Con tali premesse, le culture politiche di Gramsci e Turati si ponevano in un irriducibile contrasto: Turati condannava la violenza, l’intolleranza, l’insulto degli avversari, l’ortodossia, la subordinazione al Partito, ed anzi reclamava con forza il "diritto all'eresia"; al contrario, Gramsci esaltava la dittatura – essa è “l’istituto fondamentale che garantisce la libertà, che impedisce i colpi di mano delle minoranze faziose. E’ garanzia di libertà” – e incoraggiava la repressione del dissenso e della libertà di critica. E’ stato scritto che, quando osannava le istituzioni sovietiche dell’epoca di Lenin, egli ignorasse la barbarie del Terrore; nulla di più sbagliato. Al contrario, essendo stato più volte a Mosca, conosceva perfettamente il regime terroristico imposto dal governo ed affidato alle braccia armate della Čeka e dalla Gpu, e ciò si evince con chiarezza dal suo epistolario; ugualmente, condivideva le parole di Lenin secondo cui: “Il terrore e la Čeka erano cose assolutamente indispensabili”. Se dunque fu terribile il regime carcerario cui venne sottoposto sotto il fascismo, difficilmente egli sarebbe stato mosso a pietà della schiera di intellettuali che il comunismo avrebbe senza tema costretto nella medesima condizione. D’altra parte Turati, anch’egli a conoscenza della tragedia sovietica, aveva definito il regime leninista come una società priva di libertà e aveva condannato la dittatura del proletariato, meritandosi da parte di Gramsci l’appellativo di “semifascista”. Gramsci affermava altresì che i riformisti gli facevano “schifo”, e sottolineava come non vi fosse altra via se non quella della conquista capillare della società civile e del potere da parte dei comunisti, in primo luogo egemonizzando la cultura e la formazione dei giovani.
Il libro è ricco di numerosi altri spunti volti a riconoscere la sincera umanità di Turati – del quale certamente condividiamo la pedagogia, ma non gli ideali – e a superare l’adorazione indigesta di Gramsci. E’ a mio avviso particolarmente prezioso il messaggio di tolleranza e di pragmatica politica che la cultura turatiana ci consegna: se riletto alla luce delle attuali dinamiche interne all’universo liberale, esso potrebbe dimostrarsi di grande utilità, al fine di contemperare il rispetto dei nostri ideali con le necessità cogenti del confronto politico, senza per questo scadere in quella “corruzione opportunista” di cui parlava Togliatti.

1 commento:

  1. Ed ancora ce li teniamo tutti sulle insegne delle strade.

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