martedì 2 ottobre 2012

Liberalismo e socialismo: libertà e schiavitù

di Damiano Mondini
E’ sufficiente avere un minimo di dimestichezza con il pensiero socialista – nelle sue varie e variopinte manifestazioni – per accorgersi di quanto quelle posizioni che osteggiano la società libera e aperta derivino in ultima istanza da determinati assunti epistemologici. L’illusione di trasformare la società in un mondo più giusto ed equo, rivoluzionandola dalle fondamenta nel tentativo di pervenire ad una “giustizia sociale”, si fonda senz’altro su una tragica incomprensione dei capisaldi della civiltà stessa. Ne consegue, come la storia non ha mancato di testimoniare, che le diverse realizzazioni dell’utopia socialista e del suo sogno di uguaglianza siano destinate a tradursi in un incubi drammatici per le sorti dello stesso mondo civilizzato. Nondimeno, il socialismo ha potuto prosperare sfruttando un apparente difetto dell’impianto teorico del liberalismo: il suo essere inevitabilmente asintotico, la sua impossibilità di delineare un modello definitivo da porre in essere, oltre che delle valide strategie per concretizzarlo [1]. Il pensiero liberale, quello autentico, non ha mai sognato di compiere un rivolgimento dell’ordine sociale, coll’obiettivo di pervenire ad una situazione di perfetto equilibrio stazionario. I liberali, quelli veri, non hanno mai promesso di realizzare un Paradiso terrestre, un Eden di pace, uguaglianza, fraternità, solidarietà e giustizia sociale. Invero, non hanno mai promesso null’altro che di rendere gli individui più liberi, autonomi, indipendenti e padroni di se stessi. Da ciò deriva la nota accusa di “formalismo” rivolta loro dagli intellettuali socialisti, i quali invece prospettano di rendere l’uguaglianza fra gli uomini sostanziale, dunque non solo civile e giuridica, ma anche economica e sociale. Nelle deliziose fantasie Noise from Tea Party, dei socialisti la società perfetta – immancabilmente quella sognata dalla medesima intellighenzia socialista – è dipinta coi colori dell’armonia, della cooperazione fra uomini, dell’amore fraterno, della vita comunitaria, dell’umanitarismo, dell’altruismo e dell’assenza di disparità socio-economiche. E’ difficile resistere all’inebriante progetto prospettato dal socialismo, che infatti ha ammaliato  generazioni di lavoratori, intellettuali, artisti, personaggi noti e uomini della strada. Quasi nessuno ha avuto una forza d’animo tale da non cadere nella tentazione socialista, e questo grazie anche alla propaganda intellettuale che l’ha spalleggiata. La dicotomia fra liberali e socialisti viene infatti sovente prospettata in questi termini: i primi, più elitari, lottarono per il raggiungimento di una eguaglianza puramente formale fra gli individui, per una libertà intesa soltanto ex negativo come assenza di coercizione; i secondi, nascendo dal cuore delle masse, hanno invece preteso di sostanziare l’eguaglianza abolendo le distinzioni economiche frutto di perverse storture sociali, implementando così una libertà positiva che consenta a ciascuno di vivere una vita dignitosa [2].

 Nessun uomo sano di mente, posto davanti ad un’alternativa così netta, propenderebbe per la prima strada. Il nostro senso di giustizia, di amore per l’umanità, di empatia per i più deboli ci impone di parteggiare per il socialismo.  Del resto, sussurrano i socialisti, chi mai vorrebbe un mondo di uomini formalmente liberi ma che, privi del Noise from Tea Party, minimo sostentamento, siano costretti a svendersi al capitalista di turno per una paga da fame? Con tali premesse, la sconfitta intellettuale del liberalismo era prevedibile e pressoché inevitabile. E così fu: nella seconda metà dell’Ottocento il pensiero liberale fu eclissato dai nascenti partiti socialisti di massa; nel corso del Novecento fu definitivamente annientato dall’interventismo, dallo statalismo e dall’emergere dei regimi autoritari e totalitari. A tal proposito Friedrich von Hayek, in The Road to Serfdom [3], definisce il totalitarismo come l’esito inevitabile degli insegnamenti socialisti: è infatti nei regimi autoritari che il sogno socialista di annichilimento della proprietà e dell’iniziativa individuale raggiunge il proprio apogeo; è grazie al totalitarismo che la nazionalizzazione pressoché totale dell’economia diviene compiuta. Insomma, suggerisce Hayek: il fascismo, il nazionalsocialismo e il comunismo sovietico non furono affatto derive dei nobili ideali socialisti – o reazioni borghesi dinnanzi all’avanzata di tali ideali –, bensì la naturale e giusta implementazione degli stessi. In effetti, la storia ha dimostrato senza dubbio come, ad ogni limitazione della proprietà privata, siano sempre corrisposti un vulnus più o meno grave della libertà individuale che ha ricondotto l’umanità nella barbarie della schiavitù, una regressione della civilizzazione e un impoverimento dei Paesi coinvolti nella socializzazione delle attività produttive. E’ lecito dunque domandarsi il motivo di un deragliamento così tragico di ideali lirici come quelli veicolati dai socialisti. Ed è a questo punto che il pensiero liberale può prendersi la meritata vittoria, controbattendo all’accusa di formalismo quella di “costruttivismo sociale”. Il socialismo, come scrive Hayek, non è che il prodotto più maturo e affascinante di un cocktail micidiale di hybris scientista, positivismo, presunzione intellettuale e, mi sento di aggiungere, snobismo filosofico. L’intellettuale socialista si sente al di sopra del mero mondo materiale, dei bisogni umani più squallidi, della bramosia di denaro, insomma di tutto ciò che ritiene caratteristico della società capitalistica fondata sul libero mercato. In virtù della sua preparazione culturale e filosofica – che siamo ben lungi dal voler mettere in dubbio -, il socialista si convince di poter padroneggiare una conoscenza globale del dato sociale in modo molto più puntuale dei singoli individui stolti, che al contrario si divertono a vendere, comprare, produrre e lavorare per il “vil denaro” e per l’interesse individuale. Animato dai più nobili spiriti umanitaristici, convinto di operare nel nome del “bene comune”, decide dunque di plasmare la società con la sua precisione chirurgica per renderla un posto migliore, o addirittura un locus amoenus degno della più fine abilità letteraria. Ed è qui che la fallacia costruttivista si insinua nel suo limpido progetto: nella società, infatti, la conoscenza è puntiforme e dispersa nei milioni e milioni di individui che la compongono; i desideri, le abilità, le speranze, i progetti (perché no, anche quelli imprenditoriali) sono caratteristici di ogni singolo componente dell’aggregato sociale, e non possono essere centralizzati. Se si tenta di farlo, uniformando e pianificando tanto la produzione quanto la vita, il risultato non può essere che la distruzione dell’ordine sociale stesso. Il socialismo, tanto più è fedele ai suoi principÎ, tanto più è dannoso per la società; d’altro canto, quanto più è annacquato, tanto più ne renderà lunga l’agonia. Il liberalismo ci ammonisce dunque che il mondo perfetto non è realizzabile; ogni piano, per quanto animato da buone intenzioni, che tuttavia si traduce in una violazione della libertà dell’individuo, è destinato a ritorcersi contro la società che vorrebbe migliorare, divenendo il detonatore per la sua deflagrazione. Tentando di perfezionare ab lato le istituzioni fondamentali della nostra società, il mercato, il diritto o il denaro, non si fa altro che indebolirle e distruggerle. Al contrario, gli ideali liberali non promettono mari e monti, non sono intrisi del lirismo che caratterizza l’utopia socialista, non intendono rivoltare il mondo come un calzino presumendo di essere in grado di farlo. Nondimeno, è soltanto ampliando quanto più possibile la sfera della libertà individuale e difendendo i diritti naturali del singolo che, con pazienza e fatica, si può veramente rendere la società più prospera e più giusta. E’ abbandonando la strada del socialismo – quella che Hayek definiva la “via della schiavitù” -  per intraprendere quella del liberalismo – la “via della libertà” – che si può davvero rendere il mondo un posto migliore. Le condizioni degli operai sono migliorate dai tempi della prima rivoluzione industriale, il benessere ha raggiunto anche gli strati più marginali della società, le  possibilità di mobilità sociale si sono ampliate in modo molto più vistoso negli ultimi due secoli che non in quelli precedenti. Di ciò non dobbiamo ringraziare il paternalismo di Stato, gli ingegneri sociali, i sindacati o i militanti socialisti, bensì le forze della società civile, gli individui che hanno vissuto e operato nel libero mercato, in ultima istanza lo spirito d’iniziativa imprenditoriale che anima l’agire di ognuno di noi; insomma, dobbiamo ringraziare la libertà difesa strenuamente dal pensiero liberale.

Note
[1] = Scrive a tal proposito Davide Giacalone ne Le mani rosse sull’Italia (2006):
Sì, va detto, nella propaganda [i socialisti] erano e sono bravissimi. Loro proponevano prodotti capaci di far sognare, il mondo democratico desiderava solo far vivere. Per loro esistevano fini assoluti: la pace assoluta, la giustizia assoluta, l’equità assoluta, in attesa dei quali si poteva calpestare la pace, la giustizia e l’equità. Per la scuola democratica esisteva ed esiste la vita, le normali e pur importanti aspirazioni ad avere meno guerre, più giustizia e più equità, senza però cedere nulla sul terreno della libertà, delle garanzie e della competizione che premia i migliori. […] Il mondo comunista poteva indicare una metà, quello democratico un asintoto. Per le menti deboli, per le anime povere, la seconda cosa era ed è troppo poco.
[2] = Si tratta della classica distinzione fra libertà negativa e positiva formulata da Isaiah Berlin in Due concetti di libertà. La libertà negativa, considerata l’unica autentica dai liberali, consiste nella “facoltà di fare o non fare” e si estrinseca nel non-impedimento da parte dei pubblici poteri e nella diminuzione dei vincoli. La libertà positiva, difesa dai socialisti, corrisponde invece al “potere di fare”, mettendo l’accento sul potere o potestà che lo Stato attribuisce ad ognuno fornendogli i mezzi di fare alcunché, dunque sull’aumento delle opportunità. In ultima analisi, il primo significato è equipollente a quello di “indipendenza”, mentre il secondo a quello di “potenza”. Questi termini sono nondimeno tendenziosi: come il pensiero liberale non ha mancato di sottolineare, è solo la facoltà di disporre della propria indipendenza a garantire al singolo di operare in modo da ottenere i mezzi per realizzare i propri fini e per porre in essere ciò che desidera;  la strada dell’implementazione statale delle possibilità conduce invece alla perdita della libertà.
[3] = F. A. HAYEK, The Road to Serfdom (1944). Pubblicato in Italia da Rubbettino Editore col titolo La via della schiavitù.

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