lunedì 17 settembre 2012

Renzi, liberista o socialdemocratico? (parte seconda)

di Damiano Mondini

- Debito pubblico. Fortunatamente, Renzi non afferma di voler ridurre lo stock del debito tagliando la spesa pubblica. Ha infatti sostenuto di voler destinare i risparmi di spesa alla riduzione del carico fiscale, oltre che alle suddette misure sociali. Se già questi intenti appaiono vagamente insostenibili, aggiungervi la decurtazione del debito vorrebbe dire vivere nel mondo delle favole. Renzi intende nondimeno abbattere il debito dello Stato mediante dismissioni del patrimonio pubblico, sulla traccia della proposta di ASTRID. Si tratta di quanto esposto in tandem da Amato e Bassanini: l’obiettivo è portare il debito ad un livello di sicurezza entro cinque anni, con una decurtazione complessiva di 150 miliardi, per poi ricondurlo entro il 2020 entro la soglia del 100% del PIL. Le modalità sono molteplici: vendita di immobili per 55-80 miliardi; cessioni di partecipazioni pubbliche per 40 miliardi; accordo fiscale con la Svizzera per la tassazione sui capitali non scudati, con gettito previsto di 13 miliardi; introduzione di incentivi e disincentivi per favorire l’allungamento delle scadenze del debito [1]. Nulla di particolarmente rivoluzionario, ed esprimo riserve su un’ulteriore tassazione dei capitali esteri: nondimeno, resta il fatto che si tratta di oro colato rispetto alle alternative politiche di gestione del debito, quanto meno finché non si conosceranno i futuri sviluppi di “Fermare il Declino” di Giannino.

- Lavoro. Renzi fa sua la nota proposta di Ichino sulla flexsecurity: “tutti assunti a tempo indeterminato e nessuno inamovibile. A chi perde il posto per motivi economici od organizzativi un robusto sostengo al reddito e servizi di outplacement per la ricollocazione”. Se si incoraggiasse davvero, con rimozione degli obblighi istituzionali, la nascita di numerose “agenzie di collocamento” gestite da privati cittadini, io sarei assolutamente d’accordo: sarebbe infatti un utilissimo ponte fra l’offerta e la domanda di lavoro. Quello che mi preoccupa – lo ripeto, sempre per motivi di efficienza economica, lasciando da parte le obiezioni etiche – è il robusto sostengo al reddito. Avevo mosso una critica simile al manifesto di Giannino, che peraltro si adatta anche alle succitate proposte di Friedman e Hayek. Lodevole l’intento di sostituire l’ipertrofica difesa del posto di lavoro con una più flessibile assicurazione per il singolo lavoratore. Nondimeno, questi numerosi episodi di disagio sociale, com’è noto, sono causati dalla disoccupazione, che diviene un problema sempre più cogente. L’unico modo per tutelare davvero i lavoratori – dipendenti o autonomi – consiste nell’incentivare l’occupazione, aumentando la flessibilità in entrata, riducendo i vincoli all’offerta (leggi: tassazione, e nello specifico “cuneo fiscale”) ed estirpando la foresta di regolamentazioni che rendono un contratto di lavoro più vincolante di un matrimonio. Al contrario, se si fornisce un incentivo pubblico a rimanere disoccupati – perché di questo si tratta, al di là della retorica -, non ci si deve stupire poi che il tasso di disoccupazione involontaria/istituzionale aumenti [2]. Ecco spiegato anche perché Ichino, lungi dall’essere un ultraliberista, è solo un socialista che, al pari dei fabiani del XIX secolo, ha preferito la via del riformismo a quella della rivoluzione. Rimane poi il problema sollevato poc’anzi: la reperibilità delle risorse atte a finanziare un così corposo programma di assistenza sociale, a fronte del dichiarato intento di ridurre le tasse.
- Tagli di spesa. Veniamo alla nota dolente, definita dal Sole 24 Ore [3] “il punto più debole del programma renziano”: il capitolo dei risparmi di spesa. Lo slogan è affascinante, degno del più ardito liberista: “più mercato e più società riducendo la spesa intermedia”. Si parte col coraggioso proposito di ridurre l’area del pubblico impiego, ma “senza licenziamenti e senza esuberi”. No, Renzi non ha la bacchetta magica: si propone infatti di estendere il part-time e ridurre il numero dei dirigenti. Sarebbe il caso di scrivere “ridurre ulteriormente”, visto che la montiana spendig-review prevede già il taglio del 20% dei dirigenti. La spesa intermedia è poi un tasto delicato: essa riguarda soprattutto la spesa sanitaria, già ampiamente colpita dalla “revisione della spesa”, e che difficilmente riuscirà a Renzi di tagliare ancora. E’ facilmente prevedibile che fiumane di cittadini e pubblici dipendenti indignati scenderebbero in strada capeggiati dai sindacalisti, e spunterebbero la promessa di non incidere nuovamente sulla sanità, “un bene comune!”. Il risultato sarebbe un aggravamento dell’instabilità contabile rilevata più volte in questo articolo, che a fronte di nuove voci di spesa per welfare comporterebbe ipso facto un incremento della pressione fiscale. Keynes sosteneva una forte tassazione in fase di espansione, ma persino lui auspicava una riduzione del carico fiscale durante una recessione: i neokeynesiani, invece, arrivano al punto di voler aumentare le tasse anche durante la depressione. I miracoli dello statalismo.
- Crescita. Il Sole 24 Ore rileva con rammarico confindustriale la mancanza di una “politica industriale” nel programma di Renzi. Andrebbe ricordato a questi neomercantilisti che spetta agli agenti del mercato organizzare la produzione e la distribuzione, non certo ai funzionari del Governo. La crescita andrebbe comunque incentivata con un allentamento del patto di stabilità interno per “consentire ai Comuni virtuosi di investire nel loro futuro”. Si propone altresì di costituire fondi di garanzia del credito in ciascuna Regione così da garantire 250 miliardi di credito per le aziende; detto altrimenti, visto che un sistema bancario tecnicamente insolvente ha provocato il credit crunch, ci pensa la politica a foraggiare una ulteriore espansione del credito, magari con la liquidità “illimitata” ricevuta dalla BCE di Draghi. C’è poi il piano Giavazzi, che prevede una riduzione del 20-25% dei trasferimenti alle imprese, con un risparmio tra i 12 e i 16 miliardi, e la riallocazione produttiva dei fondi europei per 7-10 miliardi. Insomma, fra influenze mercantiliste e propositi keynesiani, l’idea che debba essere la politica a gestire l’economia ancora non riusciamo a scrollarcela di dosso.
Volendo concludere, possiamo solo rilevare che il pacato riformismo di Renzi è il miglior programma economico finora presentato dalle principali forze politiche; peraltro, vista l’onestà intellettuale di chi lo propone e di chi intende perseguirlo, posso anche presumere che non si tratti solo di chiacchiere a fini elettorali. Nondimeno, è afflitto dai difetti tecnici che abbiamo avuto modo di evidenziare, e soprattutto non rappresenta una valida opzione per chi si professa autenticamente liberale. La speranza che, all’ultimo momento, si presenti un’alternativa finalmente credibile va sempre più sfumando.

Note
[1] = Per ulteriori dettagli sulla proposta ASTRID, si rimanda a questo articolo.
[2] = Per approfondire il modo in cui il salario minimo fa aumentare la disoccupazione, si veda HAZLITT, L’economia in una lezione, ristampato in una nuova edizione da IBL nel 2012. Interessante anche ROTHBARD, America’s Great Depression (1963), che cala l’argomento nel contesto storico della crisi americana del ’29.
[3] = Il riferimento è al n. 254 di Venerdì 12 Settembre 2012, pag.17, articolo di Emilia Patta.

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